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Non uccidere, non ucciderti

Quando Nòakh uscì dall’arca, D-o gli parlò, esponendogli diverse leggi, alcune delle quali riguardavano l’omicidio. Queste iniziavano con l’avvertimento: “Pure del vostro sangue, della vostra vita, chiederò conto…” (Bereshìt 9, 5).

Questo versetto viene generalmente considerato all’origine del divieto di suicidarsi; D-o qui ci mette in guardia dal fatto che Egli “chiederà conto” delle anime di coloro che si tolgono la vita.

Il Talmùd (Baba Kama, 91b) nel cercare una fonte per la proibizione di infliggersi una ferita, inizialmente indica questo versetto come fonte biblica; poi, però, si discosta da questa opinione, rilevando che esiste una netta distinzione tra il suicidio e l’offesa arrecata a se stessi, per la quale trova una fonte diversa.

Sulla base di questa precedente discussione talmudica, alcuni commentatori hanno stabilito che l’Halakhà non classifica il suicidio nella categoria generale dell’omicidio; il divieto di omicidio è infatti considerato come il “prendersi la vita di qualcun altro” che è ancora peggio. Il Talmùd (Avoda Zara, 18a) narra la vicenda di Rabbi Khaninà Ben Tradyon che fu catturato e messo a morte dai romani, per aver insegnato la Torà.

Al suo carnefice fu ordinato di dargli fuoco, e di mettergli dei fiocchi di lana umida vicino al cuore per ritardarne la morte e prolungare, di conseguenza, il suo supplizio.

Un suo allievo, incapace di tollerare la vista del proprio riverito maestro torturato così crudelmente, gli chiese perché non apriva la bocca per permettere al fuoco di penetrargli più velocemente nel corpo e poter morire prima. Il Rabbi gli rispose che preferiva lasciare che fosse l’Onnipotente a prendere la sua anima piuttosto che togliersi la vita da solo.

Il Yam Shel Shlomo (Baba Kama, 59) spiega che l’Halakhà proibiva a Rabbi Khaninà di affrettare direttamente la propria morte, poiché non solo è vietato suicidarsi ma è vietato anche accelerare la propria morte.

Il racconto, però, prosegue narrando che il carnefice (un gentile) chiese a Rabbi Khaninà se poteva intervenire personalmente per aiutarlo ad accelerare la sua morte e se in tal caso, evitandogli la sofferenza, avrebbe potuto meritare anche lui il mondo futuro. Rabbi Khaninà rispose di sì, permettendogli di aumentare il fuoco e di togliergli i fiocchi di lana, accelerando in tal modo la morte. Anche il carnefice, infine, si gettò nel fuoco e una voce dal cielo annunciò che rabbi Khaninà e il gentile, che aveva affrettato la morte, erano invitati nel mondo futuro immediatamente.

A questo punto ci si potrebbe chiedere: se a Rabbi Khaninà non era concesso affrettare la propria morte, perché permise al suo carnefice di farlo? La risposta si trova nella collocazione del suicidio in una categoria halakhica diversa rispetto all’omicidio, che lo sottopone a regole diverse.

Entrambe le colpe sono gravissime, poiché è esplicitamente vietato versare sangue, che sia nostro o altrui, in quanto la vita non appartiene a noi ma a Ha-shèm, che ce ne ha fatto dono.

Nonostante, dunque, sia proibito anticipare la propria morte, è possibile consentire a un'altra persona di farlo. Riguardo all’omicidio, che invece è una colpa ancora più grave, non esiste deroga alcuna.

Ricordiamoci sempre di sforzarci di evitare qualsiasi vizio o atteggiamento che possa compromettere la nostra salute e, quindi, anche la durata della nostra vita, che è il dono più prezioso che ci è stato elargito.


A cura di Rav Shlomo Bekhor, 2009.

Pubblicato venerdì 29 luglio 2011 alle 09:49:59

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