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Noakh, il giusto per la sua generazione

Raffi Misul

D-o disse a Nòakh: "Ho decretato la fine di tutte le creature…fatti un'arca di legno di pino…spalmala di dentro e di fuori di pece…la farai così: la lunghezza dell'arca sarà di trecento cubiti, la larghezza di cinquanta e l'altezza di trenta" (Bereshìt 6,13-15).

D-o indica a Nòakh la forma e le dimensioni esatte che doveva avere l'arca che stava costruendo.

Questa attenzione suscita un certo interesse. D'altra parte, è lecito pensare che D-o avrebbe potuto salvare Nòakh, la sua famiglia e gli animali, che non si erano corrotti, in moltissimi altri modi, come per esempio trasferirli miracolosamente in Terra di Israèl dove non si verificò il Diluvio (Ghidon).

Rashì cerca di dare una spiegazione a ciò, e sottolinea il fatto che Nòakh impiegò ben centovent’anni per costruire l'arca, con la speranza che gli altri abitanti della Terra, nel vederlo affannarsi così tanto, potessero redimersi dai loro peccati (Rashì, Bereshìt 6,14).

Ma l'arca di Nòakh non è l'unica arca del Pentateuco. Infatti, quando Moshè era ancora in fasce, la madre "…fabbricò una cassetta di papiro, la spalmò di bitume e di pece, vi mise dentro il bambino…" (Shemòt 2,3).

Il legame tra questi due grandi personaggi, Nòakh e Moshè, è molto più stretto di quanto si potrebbe pensare. Nel Talmùd (Ròsh Hashanà 21) è insegnato: "Quarantanove porte di Saggezza furono create in questo Mondo e furono tutte consegnate a Moshè, come è scritto: "Eppure l'hai reso solo di poco inferiore agli esseri divini…" (Tehillìm 8,6)".

La cinquantesima Porta è talmente elevata che non può far parte di questo Mondo (Hor Khadàsh, pag.74) perché ne rappresenta la completezza non adatta alla materialità e Moshè la raggiunse solo in due occasioni: sul Monte Synài (dove si fermò per ricevere le Tavole della Legge esattamente quaranta giorni e quaranta notti, pari alla durata del Diluvio) e in punto di morte, presso il monte Nevò.

In molte occasioni, Moshè cercò di intercedere presso il S-gnore per salvare il Popolo di Israèl nel momento del peccato, mentre Nòakh, venuto a conoscenza del progetto divino di distruggere tutto il Creato, non cercò di distogliere D-o, e per questo il Diluvio si chiama anche "Le Acque di Nòakh" (Zòhar Hanigle, Vaiykrà 14:).

E visto che Nòakh "era uomo giusto, integro tra i suoi contemporanei, procedeva con D-o" (Bereshìt 6,9) e senza dubbio era lo tzaddìk (Giusto) di quella generazione, aveva di certo la possibilità di annullare il terribile decreto divino.

Nòakh dovette stare quaranta giorni e quaranta notti a stretto contatto con le "travi" dell'arca lunghe cinquanta braccia, a stretto contatto con la spiritualità più elevata.

Le misure dell'arca hanno, quindi,un valore mistico. Nel racconto di Purìm leggiamo che "…Mordekhày, l'ebreo, sedeva presso la porta del Re. E  disse Zèresh, la moglie di Hamàn…di procurarsi una trave di cinquanta braccia…e di impiccarci Mordekhày…e piacque la cosa ad Hamàn e si procurò la trave" (Esthèr 5,13-14).

Forse qui dobbiamo intendere che Mordekhày non sedeva presso la porta del re Assuero ma presso la Porta del Re dei re. Secondo il Midràsh (Yilkòt Shimonì, Esthèr) Hamàn cercò disperatamente una trave di cinquanta braccia e trovò soltanto una trave in casa propria che il padre, l'Egemone Parshandata, aveva sottratto dall'arca di Nòakh. Mordekhày era il Giusto di quella generazione e aveva raggiunto tutte le Porte di Saggezza, e il malvagio Hamàn comprese che soltanto superandolo, raggiungendo la Porta più elevata, aveva la possibilità di uccidere l'odiato rivale.

Ecco perché cercò una trave di cinquanta braccia, cercò di raggiungere un livello spirituale elevato, il più alto possibile. Il processo che Nòakh affronta all'interno dell'arca, è complesso e profondo ma, quando lo completa, allora si può affermare: "E si ricordò D-o di Nòakh…" (Bereshìt 8,1).

La prova che Nòakh ha compreso perché D-o l'ha salvato impiegando l'arca ci viene, forse, fornita da Rashì.

Quando Nòakh uscì dall'arca si astenne dall'occuparsi di ripopolare la Terra fino a che D-o non gli promise di non disruggere di nuovo tutto il Creato e pose l'arcobaleno come simbolo di questo patto (Rashì ,Bereshìt 9,9).

Le travi dell'arca servono a memoria per le generazioni future come è scritto: "(D-o) ha lasciato ricordo dei Suoi prodigi…" (Tehillìm 111,4). Non dobbiamo mai perdere di vista quale sia il nostro compito in questa Terra e comprendere che la possibilità di causarne la distruzione è sempre molto reale, tutto dipende dalle nostre azioni.

Nòakh comprese che il primo passo per la Redenzione è occuparsi del prossimo e del suo destino, perchè nessuno può considerarsi esentato dal preoccuparsi di ciò che la collettività deve affrontare. P ossa essere questo l'inizio del cammino per accogliere presto il Giusto Messia.

 
Fonte: "Scintille di verità a Livorno"

Pubblicato domenica 24 luglio 2011 alle 10:34:48

 
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