torah
Il valore di ogni ebreo
di Gheula Canarutto Nemni
Egli sente ciò che ciascuno prova. Egli aiuta ognuno a realizzare l’irrealizzabile. In sua presenza ci si sente più ebrei, ebrei più autentici. In sua presenza, ci si lega al proprio fulcro ebraico interiore. (Eli Wiesel)
66 anni fa un uomo ebbe una visione. Immaginò ogni remoto angolo della terra colmo di conoscenza di D-o. Vide un’imponente e maestosa costruzione da cui provenivano, senza timore, parole di Torah, nel cuore della Russia sovietica, quando gli ebrei erano perseguitati perché praticavano la propria religione. Sognò un luogo che accogliesse ogni tipo di ebreo, a prescindere dal retaggio e dalla conoscenza della propria religione, nel cuore di New York, quando gli ebrei erano più concentrati ad affermare la propria integrazione che la propria identità. Desiderò un posto dove migliaia di studenti ebrei potessero festeggiare il seder di Pesach pur trovandosi sulle alte pendici del Nepal, a Katmandu. Credette fermamente fosse possibile vedere, un giorno, donne a Milano indecise sulla scelta del mikveh a cui andare, quando l’Italia ebraica stava riaffiorando dalle ceneri del dopo-guerra. Grazie alla sua fede ideò la possibilità di venire fermati da un giovane di diciassette anni, nel cuore del Sudafrica, e sentirsi domandare: “scusi, vorrebbe mettere i tfilin?”, quando molte autorità religiose definivano ‘blasfemo’ legare dei tfilin intorno a un braccio che dissacrava shabat.
L’ideatore della visione ha un nome. Si chiama Menachem Mendel Schneerson, settimo Rebbe di Lubavitch. La sua non è rimasta una pura illusione, ma si è trasformata in incredibile (inteso come difficile da credere…) realtà, percepibile ovunque nel mondo ci si trovi. La rivoluzione messa in atto 58 anni fa da un giovane leader il cui quartier generale si trova a 770, Brooklyn, New York, ha dato una svolta epocale all’ebraismo mondiale, permettendo a milioni di persone di ritrovare la fierezza e il vero significato di essere ebrei, ovunque essi siano, fisicamente e spiritualmente.
Il popolo di Israele si distingue per infinite doti positive, tra le quali c’è quella della gratitudine, della riconoscenza. E riconoscenza significa ammettere ciò che, chiunque, in qualsiasi parte del mondo, ha fatto per noi. Al Rebbe dobbiamo riconoscere di averci insegnato il valore intrinseco di ogni ebreo, a prescindere dal livello di osservanza e conoscenza a cui si trova. A lui dobbiamo riconoscere di avere trasmesso la forza, a un popolo stremato dalla seconda guerra mondiale, di non farsi abbattere dalle rovine della guerra ma di guardare avanti e avere fede nella propria ricostruzione. Gli dobbiamo la capacità di credere nei sogni e negli ideali e la lezione di non fermarci davanti a quelli che, apparentemente, sembrerebbero degli ostacoli.
66 anni fa un uomo ebbe una visione. Che oggi si è trasformata in una realtà universale. Grazie Rebbe.